Pixel/Noise/Contrasto tonale caratterizzano la videoart di Matteo Campulla


Intervallo [42 sec. Digital postcard - Copy of Sequence 01 17]

Con Matteo Campulla scambio mail sino a tarda notte, in un vortice (o vertice?) che sembra una partita a tennis tra Bjorn Borg e Johm McEnroe nel 1978.

Matteo nasce a Iglesias, nel 1982, ed è subito proiettato in Germania. Dopo sei anni torna definitivamente in Sardegna, dove consegue gli studi al Liceo Artistico di Cagliari.
La sua ricerca pittorica si condensa nel 2009, con la fondazione del Movimento Oscurantista assieme agli amici e colleghi Davide Ligas e Diego Dall’Ara. Il collettivo si oppone in maniera frontale a un certo tipo di arte contemporanea, “al sistema (dell’arte) e alla strategia (commerciale nell’arte)”.
Dal background pittorico, la sua ricerca si evolve, interessando sempre diversi medium, uno studio che segue il percorso dei moti convettivi e si esprime con linguaggi multi banda a tripla bobina. Tra il 2011 e il 2012 vira il suo linguaggio verso la video art che lo porta tutt’ora nei maggiori centri culturali e museali della Sardegna.

L’artista ha fatto proprie due forme espressive che di primo acchito possono sembrare diametralmente opposte, ma che in realtà non sono distinte da una linea di demarcazione netta. Dispone di molteplici risorse, cosa che secondo il suo pensiero è “uno dei presupposti fondamentali per chiunque si voglia muovere in un discorso realmente contemporaneo, qualsiasi sia il suo tipo di ricerca”.

Matteo Campulla esterna una riflessione introspettiva sulla vita reale appoggiandosi a immagini scandite da pixel, scomposte, rallentate. Affronta uno studio socio-antropologico sul rifiuto del prodotto e dell’individuo, sulla frammentazione dell’Io, sull’interazione uomo – paesaggio antropico, sulla trasposizione di se nel mondo esterno. Nei suoi lavori ricorrono colori innaturali e distorti (cieli rosa), insetti (larve), animali e abitazioni tipici dello scenario urbano (gabbiani, palazzi), edifici moderni abbandonati (ex Colonia Marina Dux), sfondi fissi su cui si muovono esseri viventi e panni stesi.

Scorrono le nuvole sullo skyline di Cagliari, le formiche si muovono veloci mangiando intonaco impulsivamente (o compulsivamente?), in un sovraffollamento quasi da visioni post-allucinogeni e antidepressivi. (THEY KNOW IT e LIMITI)

Tre parole, tre immagini: Lisciviazione. Traliccio. Brownout.

Il suono è perturbazione sonora, a volte ripetitiva, meccanica, metallica. Ricorda un treno, una stampante in funzione, la fase di raffreddamento di un hard disk spento nel 1995 e riacceso vent’anni dopo.

Come in “Scars (Video Project) – landscape #3”, in cui il complesso audiovisivo fa rivivere l’esperienza di un viaggio rumoroso, scomodo, distaccato rispetto al paesaggio, separato da una barriera di suoni ovattati. Sono gli occhi dell’artista che guarda il vetro, diagonalmente, anche se in realtà sfugge, un po’ come il discorso della mosca che vola nel treno e dei sistemi di riferimento relativi e assoluti. Una continua soggettiva, come nel film “Enter the Void” (2009, Gaspar Noé).

Nella serie “THEY KNOW IT”, vincitrice del Premio Babel 2013/Sezione video, in particolare in “Second Parasitosis”, la componente sonora sembra un tuono continuo e rallentato, intervallato da suoni acidi – metallici. Le immagini non vengono rotte, ma una coscienza LD/lo-fi ci riporta indietro nel tempo. Ci proietta nel 1997, con la produzione di “Nirvana” (Gabriele Salvatores), o nei primissimi anni 2000, quando si diffonde un largo uso di telefonini ed handycam prosumer (“INLAND EMPIRE”, 2006, David Lynch;  “Benny’s Video”, 1992, Haneke).

Come un corno che cresce sotto il cilindro, la Glitch Art sta affiorando dagli ultimi lavori dell’artista. Il progetto 29 AV, The Factory of Addiction, MineAllMine e tanto altro datamoshing disseminato per il web più o meno profondo. La ricerca non solo estetica della non perfezione si oppone all’elevata risoluzione delle immagini e all’alta definizione dell’audio garantiti dalle ultime tecnologie, sempre più in grado di fornire prestazioni avanzate, tanto da rendere la realtà più realistica del reale.

Si scatena una volontà di distruzione. Uno studio sistematico del glitch (leggete “Carsten Nicolai – lo scienziato dell’errore”, di Luca De Siena). Diversamente dall’approccio scientifico, in cui l’errore è individuato e “messo da parte”, qui è ricercato e replicato ai fini estetici. La religione dell’errore, il rifiuto del momento attuale, o la sua ridefinizione? L’opposizione alla consuetudine. La nostalgia per i vecchi dispositivi, o la ricerca di un rinnovato ruolo? Per Matteo Campulla la glitch art non è una fase nostalgica per gli anni ‘80 e ‘90, ma è (una fase) totalmente contemporanea, di sperimentazione e manipolazione dell’immagine.

Nelle sue ultime video opere, le immagini in movimento si intersecano tra loro, i colori si alterano (datamosh). L’intreccio e la sovrapposizione tra parti statiche e non si ottengono con la manomissione del logaritmo del file. Esistono altri sistemi per provocare questa “rottura” (per i curiosi non esperti il web offre delle applicazioni che rielaborano automaticamente le immagini, divertente! Ma è un’altra cosa…)

L’immagine “pixelosa”, con soluzione di continuità, poi si ricompone, si sposta dando un effetto “colata lavica”. CPU e RAM sovraccaricate, schede video poco performanti. Proiettati nel passato, eppure sulla linea di guardia del 2015.

La tecnologia si fa d’un tratto imprevedibile. Sindrome di Asperger.

Non più fredda, ma calda, come lava.

Una commistione tra programmazione e caso, quasi una  mosca su un treno, o un cammello su una grondaia, o un ombrello e una macchina da cucire. Una sfida alla perfezione, un’immersione nel nichilismo, uno sfogo del desiderio di distruzione, una distruzione immateriale, perché tange solo immagine e suono, e temporanea, perché sfocia in una ricostruzione. Ecco che le macchine (da cucire e gli orologi) si piegano al nuovo volere dell’uomo, e di Matteo.

“(…) la forza della ricerca in questo campo sta proprio nel sapere condiviso e spesso anonimo. Molte mie opere le trovi in rete sotto pseudonimo ed è giusto che sia così. Dico, è giusto il fatto che non le trovi”.

Chiedo a Matteo: Con quale linguaggio, tra i tanti sperimentati nel tuo percorso, ritieni essere più comunicativo?

Matteo risponde: Penso che la videoarte sia al momento il medium che, più di altri, si avvicini al mio modo di intendere il contemporaneo. Non vorrei precludere la grafica o qualsiasi altra disciplina (…) ma credo che il video sia forse la tecnologia che più, al momento, si presta a certe rivoluzioni.

Di Paola Corrias

Matteo Campulla

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Informazioni su Paola Corrias

Editor / Curator / Dreamer Paola Corrias scrive di Arte Contemporanea e Architettura su testate nazionali e internazionali, sul web e cartacee. Si forma con una laurea magistrale all’Università di Cagliari come Conservatore dei Beni Architettonici e Ambientali e approfondisce la disciplina con ulteriori studi in Architettura. Attualmente è consulente per il Restauro come libero professionista. Si interessa alla curatela di mostre di arte contemporanea nella città di Cagliari e nell’Iglesiente cercando di assorbire ciò che il territorio offre. Tra le sue più grandi passioni: fotografia, cinema, musica, urbanistica, paesaggi culturali.

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