Una decina di visi deformi si affacciano da uno sfondo verdastro dipinto dalle sapienti mani di Giacomo Zucca. Emergono gli occhi spalancati, le bocche socchiuse, i denti digrignanti. Racchiudono un’essenza di esperienze: l’accademia di Belle Arti, l’underground sassarese, la Spagna, El Greco e Goya. Ci si sente osservati da questi occhi immersi nell’oscurità. Visi burloni che compaiono in tutte (o quasi) le opere dell’artista.
Colore e riciclo si fondono perfettamente in un’arte intrisa di espressione anacronistica che altera i sensi. Opere libere di vagare e di sfondare le barriere spazio-temporali, logico-percettive.
A partire da una tela rovesciata mette insieme oggetti di varia natura, sovrapposti a uno sfondo possibilmente dipinto. Un acquarello, per esempio: due o tre pennellate grossolane per definire uno scenario sfumato. E’ insolito trovare un cucchiaio di plastica, un accendino usato e un componente elettronico di computer assemblati in un unico quadro. Così come incuriosisce il soffio di un dio pelato, un batuffolo di cotone allungato che sposta la massa d’aria e alleggerisce la tela.
Visi di creta, robot di circuiti elettronici, olii distesi con la spatola. Composizioni eterogenee e plurimateriche. Un linguaggio del tutto personale che rappresenta appieno la poliedricità di Giacomo Zucca. E il legame coi ricordi.
L’indole di instancabile musicista gli offre continua linfa vitale per plasmare nuove soluzioni espressive, come Dio con la morbida creta, come la spatola col colore, un colore molto acceso.
Tecnica mista. Collage. Composizione di immagini digitali.
Sparisce il grigio metropolitano dei rifiuti, soppiantato da un blues – jazz allucinario. Lisergico. Onirico. Ovattato. Oltre la coscienza, nel limbo della fase R.E.M.
Oltre il flamenco, il suo calore crea reazioni chimiche. Muove qualcosa dentro, nel tentativo di capire l’animo dell’artista, o di assaporare appieno quella sensazione di sospensione tra reale e irreale. O surreale.
Misterioso, un Tristan Tzara dell’immagine, un ricercatore della libera creatività. Anarchico della regola stilistica sovverte l’ordine, svolta la tela e definisce prati verdi, fondali marini, visi aleggianti. Le maschere carnevalesche dalle pupille dilatate e i serpenti di immagini ripetute generano una visione terrificante, ergina pura.
L’esperienza di Giacomo Zucca evidenzia l’importanza di dare una seconda possibilità agli oggetti che paiono inutili e finiti. Le tele stesse sono utilizzate più e più volte. Un messaggio prorompente ma conciso.
Alla domanda “cosa vuol dire per te buttare un oggetto?” Giacomo Zucca risponde “perdere un potenziale sentimento”