Live report: The Chap – Linea Notturna, Cagliari


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15 febbraio 2012

The Chap sono dei bambini di mezza età.
Etere alla mano, Raoul Duke sorride sui pantaloncini corti sopra il ginocchio con pelo drizzato di Panos Ghikas, dacché siamo a febbraio nella Cagliari più Caritas del decennio.
Una signorina, probabilmente nipote di Tina Weymouth, che pare si faccia ore e ore di Wii al giorno su un giochino tra Donkey Kong e un’imitazione del WWE.
Barba bipolare smozzicata ai lati, una cosa di batteristi anglosassoni, perché guardi San Remo e ti rendi conto che noi italiani coi peli in faccia sembriamo sporchi; anche gli inglesi sembrano sporchi, e spesso lo sono, ma da loro la zozzura fa figo: Keith Duncan.
In mezzo a tutti c’è un uomo che è la spontaneità in persona, la chitarra mimetica per eccellenza (in tre atti: c’è, non si percepisce, è indispensabile) con cui berresti ottanta pinte; lo aiuteresti persino a smontare gli amplificatori dal palco, perché è buono bravo e disponibile, e mi ha scritto anche la scaletta sul taccuino, oltre alle foto autografi baci eccetera eccetera.

Avete visto, starei per fare un discorso velatamente improntato sulla nostra generazione infantile, che non trova altro spazio per farsi largo che sbraitare un
biberon, sfreakettare la propria immaturità, ingenuare qualsiasi carta, se gli va.
Una tiratona moralista su questi quattro (ma su wikipedia sono cinque, qualcuno corregga) e su noi quattro.

Ma.

In basso, nel loro sito, molto in piccolo, c’è scritto:
Our motto:
Total administration corresponds to that historical moment when technical rationalization and instrumentality, in the service of capital, spreads beyond subject-external social and political relations to penetrate and determine, at a fundamental level, individual
psycho-interiority.

Acuto.
Mi viene in mente Sly Stone e la sua famiglia.
Insomma, cazzoni si, ma quando si tratta di fare i seri, siamo seri.

E sul myspace?
In our work, we attempt to ensure a style immanent double coding in and through the space opened up by the perceived dissonantial mobility of relationship, both from the objective and the subjective standpoints. The former is by means of ‘structural multitracking’; the latter, subjective, viewpoint is, meanwhile, manifest in the way the shadowy, rationally-repressed ‘Other’ is allowed the opportunity to thrust a painful wedge into the monadic carapace of order.

Suggestivo.
Mi viene in mente Tobias Jundt e i suoi Bonaparte.
Insomma, cazzoni si, ma quando c’è da essere intensi, siamo intensi.

Il passo è breve.
Poco prima dell’inizio del live, parlando col fonico Piermario, mi sono fatto rivelare che questi qui sono molto “professionali”.
Quando Piermario dice qualcosa non c’è bisogno di pensarci su, mi fido.
E posso dire la stessa cosa solo di un paio di persone qui dentro.
Ergo: cosa vuol dire un concerto come quello dei The Chap?

Avanguardia, certo.
Divertimento, anche.
Ma, come viene ben titolato un loro pezzo, “Fun and interesting”, una certa propensione all’impegno. La maglia sonica, in particolare: niente suona come The Chap e The Chap suonano di tutto.

La prima cosa sono quei cori da gruppetto di nordici formaggiosi. Spirali spaesanti, incroci di strade in piena miopia, ehi, ho solo due orecchie! Ognuno col suo microfono, e nonostante sia Johannes il cantante principale, qui e lì, questo e quello si prendono la briga di intripparsi e contribuire alle melodie sbattichiappa. Non puoi fare a meno di muovere una o più parti basse del corpo.

La seconda cosa sono gli arpeggini e le tastierine della casalinga bionda, un misto di Miniature Tigers & la nigrizia dei quattro che emerge, come dei piccoli Damon Albarn a sporgersi sul davanzale del vicino, un tizio caraibico sbentiato in fissa con Fela Kuti.
Si truccano come i Vampire Weekends per essere addestrati da Ali Farka come in “Contra”.
Il fischietto sci-fi di “We work in bars”, capolavorone di ipnosi.
Anche gli Yeasayer (modello “Odd blood” però) sono dietro l’angolo per tendergli un’imboscata.
La solidità ritmica di quel saltimbanco è spalleggiata dal greco, che però spesso e volentieri si destreggia intessendo piste lunghe autostrade intere, previo accordo bocca orecchio col socio spelacchiato. Oppure maneggia un Mini Kaoss Pad e cazzeggia in un tropical minestrone.

E poi?

E poi c’è un impalpabile quadrato, intorno al palco, che fa percepire una finitezza/completezza/dinamicità di suono che è impossibile descrivere in lettere. Sono accorgimenti, ciliegine sulla torta.
E’ l’orchestra per il gangsta rap, il rumore bianco per l’hardcore.
Una parola simile a gingilli.
D’un tratto capisco cosa voleva dire Piermario con “professionali”.
E Johannes conferma: “More light on stage!! More voice on monitor!! More iPod!! More iPod!! More iPod!!” e infine: “Please more iPod…the iPod is the most important member!!

Uno scherzo, certo, ma anche la prova di come lo spettacolo sia tarato, misurato, progettato, nella sua proposta, in particolari certosini. Le aggiuntine di una macchinetta, il suo andamento elettronico, le strutture. Roba fondamentale, o meglio, la ciliegina sulla torta di cui sopra, il surplus che fa la differenza.
La minchiata che il giorno dopo ti farebbe venire voglia di prendere il primo volo per Pisa e andare a rivederteli.

(Per la cronaca sono rimasto secco su “Ethnic instrument” un gigantesco giocattolone funky-Talking Heads con la voce di chissà quale essere della giungla, ma in un film di John Hughes; sulle commercial songsProper rock” & “Now woel”, roba che qualche azienda assicurativa li farebbe ricchi per un campionamento da trenta secondi; infine sul magma cianotico di “BITSS!!!” che parte da certi tamagnocchi anni ’00 e finisce su una disfida violino-violoncello da pazzi invasati. Per stasera il marabù resta alla larga. The Chap non hanno paura di essere quello che sono, e si vestono di conseguenza.)

Postilla:
La mia nuova prima volta al Linea, dopo tre mesi di articoli, si consuma così. Black Rebel Motorcyrcle Club e odore di brusato nell’aria. Non riconoscere i Devo e recitare come un rosario “Everybody gots something to hide except me and my monkey”.
Qui dentro non si è ancora rivisto il venditore di rose, parte integrante dell’arredo, spaventato dalla locandina li fuori e dalla sua enorme fiammata.
O quelli del Linea Notturna hanno un gran senso dell’ironia.
O, il destino.

Scaletta:

Running with me
(Remember) Elvis Rex
Torpor
They have a name
We work in bars
What did we do?
Better place
We are nobody
Ethnic instrument
Carlos Walter Wendy Stanley
Hands free
Fun and interesting
Proper rock
BITSS!!!
Now woel

Testo di Alessandro Pilia

Foto di Paola Corrias 

Info The Chap:

http://www.thechap.org
http://www.myspace.com/thechap
http://www.facebook.com/pages/The-Chap

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