22 aprile 2012
Segue da qui.
Al Teatro La Vetreria di Pirri, Bungalow 62 ha appena abbandonato il palco, e il fantasma siede ancora in prima fila.
Non si cura degli sguardi.
Anzi, sale sul palco accompagnato da Nick Rivera, uno strano immigrato italiano in terra anglosassone, atterrato/spiaggiato su questo palco scricchiolante, legnoso, vero.
Un quintetto che riempie gli occhi di strumenti.
E’ l’inizio di un viaggio verso mondi lontanissimi.
Come quando appena rasata, la pelle lascia nudi e il tatto è sempre acceso, sensibile a ogni morbidezza, è un piacere sentire “Colors” a inizio “seratina“. Così la chiamava la zia di un certo Michele Sarti.
Muro corale, pentasolo all’unisono, mentre il fantasma dondola la testa, sua l’agendina nera, sua l’espressione disegnata e sollevata. Aspettarsi una sorpresa va bene, ma non un abisso rispetto alla pioggerella primaverile del disco “Happy song is a happy song“.
D’impatto.
Il rientro alle consuete forme è previsto dalla title track: arpeggi acustici loopati, feed e armonici, migliaia di gocce tubolari, calde, sonagliate, lo strisciare elettrico e la marimba che marimba non è.
Sei note, perfette solo per lei.
Il fantasma? E’ certamente donna.
Dedicata a Zarme e Barbara, “Butter in my head” è cantata, imbozzolata d’amorevolezza. Ricorda i campioni italiani che furono i Franklin Delano di Paolo Iocca e Marcella Riccardi, il round mood e un bel bottiglione da due litri d’acqua.
Da prendere a piene sorsate prima di entrare in “Coma“.
Bupreste “ReneeLuise“, scaturisce dal pizzicare della balalaika e dell’ukulele, armonia culturale in girandola ritmica, un chiaro di luna melodico, tintinnante, introspettivo sino all’incedere definitivo dei timpani, che scacciano via persino la misteriosa entità mascherata.
E se si invertono i pezzi della scaletta, dimenticanza di poco conto, ci si può imbattere in pornofolk à la Cellophane Flowers, piccioni che si tramutano in diamanti splendenti, vermi, marcette e immensi delay, gatti obliqui/zombificati/mannari su scialuppe di salvataggio, riarrangiamenti di David Grubbs e Sparklehorse, improvvisando con Bungalow 62, che fanno ballare al buio.
Un buio marrone, rapido come un treno.
Scende il sipario. No, è uno schermo.
E arriva la sera, il giorno e la mattina: “The slow splinker” è verità metereologica, abbozzo strumentale, la sonorizzazione del cielo. Infine, negli ultimi due pezzi, si giunge alla catarsi dell’azione.
Cosa fare mentre si ascolta un pezzo come “The beast“?
Cosa si vorrebbe impare?
Dipingere un lago, accendere un fuoco, aiutare un figlio a fare i compiti, terminare un muretto a secco, sognare un bisnonno, dire a una donna quante volte si può essere capaci d’amare.
In frenesia e batticuore, fare un gavettone al migliore amico, tirare le sopracciglia al cane, sgommare dritti in spiaggia, provare a non morire, guardare un fiume di corsa, tirar su un masso, urlare di notte in un campo di pannocchie, applaudire e sorridere.
Guardare finalmente in faccia il fantasma, è Frida Kahlo.
No, è Laura Mura
Nick Rivera, minatore del Klondike, scava scava, alla ricerca della pepita: far scaturire quel sentimento, il calore giusto, la pace dell’anima. Il manufatto, la traccia emotiva perfetta.
Ma qual è la natura strettamente musicale di questo progetto?
Il tutto, il risultato, la storia. Puzzle che si compone un pezzo per volta, rivelando un quadro d’insieme, o l’affresco, che merita uno sguardo totale, per ammirare in un secondo tempo il particolare, il gioco di stile, la pennellata.
Così i pezzi di Nick Rivera sono il lavoro, e l’immaginazione, di cinque uomini (e un fantasma) che compongono stagni interi brulicanti di suoni, torbidi, pieni, ricchi, talvolta offuscati o confusi, comunque da perdersi disorientati.
Per chi ha le benedette “antennine” accese, o ama la vita lacustre, è una pacchia. Non si riesce a fare in tempo a seguire il lavoro di arrangiamento sulle chitarre, i loop, i feed e gli echo laterali che si è presi da qualche melodia eolica.
Cumuli, cirri, strati e nembostrati, moti ciclici.
I pezzi si costruiscono da soli.
Levitando. Sussurrandosi a vicenda o scagliandosi per le liane, nella foresta, giungendo a uno strapiombo improvviso e tuffandocisi senza remore.
Come al rientro de “I sette messaggeri“, di Dino Buzzati, il merito dell’odissea e di tutti i fuochi d’artificio sono della scapigliata Stratocaster di Alessandro Coronas, della Telecaster di Elia Casu, spesso scambiata con un’acustica, del basso di Matteo Muntoni, in bilico tra gesti fondenti, straordinariamente d’apporto, e saturazioni devianti e distorte, dei rintocchi di Stefano Vacca, tonfi che pur restandosene nelle retrovie, hanno elargito carattere e colore.
E per ultimo Michele Sarti, nato in solitudine a Londra, cresciuto giocando con corde, percussioni arrivate da chissà dove, registrazioni ripetute e corni francesi, giunto qui a teatro in compagnia, rinnovato, con la serietà di voler mostrare alla platea la sua bellezza, i suoi momenti pensosi e trasognati.
Tutto, senza risparmiare nulla.
Con le dovute proporzioni, Nick Rivera è musica sinfonica per gole assetate.
Scaletta:
“Colors”
“Happy song is a happy song”
“Butter in my head”
“Coma”
“ReneeLuise”
“I try so hard”
“Pigeons fly freak”
“Obliquo the werecat”
“Don’t think”
“The slow sprinkler”
“I always do”
“The beast”
“Sea of teeth”
“The wasp and the butcher”
Testo di Alessandro Pilia (travestito da Juri Camisasca)
Foto di Paola Corrias
Info Nick Rivera:
http://nickrivera.bandcamp.com
http://www.facebook.com/profile.php?id=100002256148827
http://www.myspace.com/nickriveraandtheflyingpigeons
http://labelnetlabel.com/artists/nick-rivera
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