2 dicembre 2011
Sapete, la storia del pezzo che state per leggere è molto travagliata. Ha rischiato, per diversi giorni, di non uscire affatto.
E’ molto dura per un reporter come me definirsi tale. Ancora più difficile è stroncare un gruppo, un concerto, un film, un kebab della Marina.
Mi piace tutto, me lo faccio piacere e, se proprio trovo qualcosa talmente brufolosa di difetti, la evito. Sono come Vincenzo Mollica, ciccia compresa.
Non ne parlo, non esiste, non è mai comparsa sulla terra.
O io non c’ero.
Quindi avete rischiato di beccarvi una bugia se mi avreste chiesto se venerdi scorso ero assieme a voi al concerto di End./Stardom, sul palco del Fabrik.
Molti sono arrivati in ritardo, e si sono persi il primo gruppo. Hanno fatto male, perché, come dicono i poliziotti sulla scena dell’omicidio: “Circolare, qui non c’è nient’altro da vedere…“.
Ma bando alle ciance, caro Pilia, dicci com’era questo concerto.
A colpirmi, buttando l’occhio sullo stage, la scenografia. Gli End. non hanno tralasciato nessun particolare, montando un palco a metà tra visioni retrofuturistiche e atmosfera da vaudeville alla Coney Island.
Da un lato, il manichino Maria Tesla, riciclato da qualche reclame anni sessanta dell’ENEL, con la sua testa a intermittenza. Maria si candida come sesto membro del gruppo, ovviamente il più importante. Le lampadine sul palco, da destra a sinistra, trasparenti e sull’orlo di fulminarsi, sono state la prova del fatto che i gestori dei locali cagliaritani non badano a spese per la riuscita di un concerto di un certo calibro.
Sul palco sale Fabio Desogus (AKA Old Sparky). Tocca i tasti: entriamo in un ibrido a metà tra “Treefinger” dei Radiohead e “Il mondo di Quark” di Piero Angela. Un ambiente Aix Em Klemm introduce epicamente il cantante Giulio Muscas (ex-Chemical Marriage) e gli altri musicisti.
Inizia il live.
“Jail bars“: un muro di suono immenso, un orologio a tredici ore, le lancette fatte di rovi spinosi. Gli arpeggi di Stefano, il basso sempre a sostegno della voce, un flusso a cadere, gocce che strisciano sul vetro di una finestra dublinese. Fuori buio. La serata senza speranza che tutti abbiamo vissuto, almeno una volta nella vita. I synth raggiungono mondi lontanissimi: “Di solito le tastiere vengono relegate a puro margine, sottofondo. No, le tastiere si devono sentire!” mi ha confessato un Fabio in cerca di redenzione. D’accordo con lui.
“Tears“: sei nella Manchester dei primi anni ottanta. Bernard Sumner e i New Order ai primi tasti. Un Primo Carnera armato di Fender Jaguar spiattella un riffone alla The Edge. Tutto il pezzo è un’acerrima sfida tra queste due enormi forze. Come ci si sente ascoltando un pezzo degli End.? Io direi che è come essere a una festa dove le ragazze ancora si truccano solo di rosso, bianco e nero, senza l’aggiunta di tutti i colori di oggi. Una di quelle feste dove almeno il 30% degli invitati finisce per piangere al buio, mentre l’amore della sua vita balla con un’altro.
“Fireworks“: chi si ricorda il video di “Noi non ci saremo” dei PGR? Se non riuscite a immaginare la scena, la potete ritrovare in quel video, ma il pathos endiano va al di là del pensiero che Natale sta arrivando e che fra poco si riceveranno tanti bei regali da riciclare l’anno prossimo. Io spero proprio che Angelo Argiolas si dimentichi di inviare i demo del gruppo ai centri commerciali, rovinerebbe la magia all’interno della mia 106 in tutti i viaggi invernali sino a Sestwin Peaks.
“Restart“: uno dei pochi superstiti della vecchia incarnazione del gruppo. L’irruenza dell’intro richiama di nuovo i Joy Division. Ma la capacità di proporre new wave/dark punk al giorno d’oggi sta nell’evitare la stagnazione di genere. Ebbene, una melodia come quella di “Restart” è facilmente riconducibile a Editors e affini, però la ricerca di questo pezzo è nell’incastro di ritmi stoner e nell’influsso degli archi sintetici. Inossidabile.
“Chain scars“: di sicuro il brano più difficile. Non ci sono molte parole per definirlo. Gli Interpol, Bowie a Berlino, certo, ma i campionamenti vocali? Il falsetto sul finale? L’ossessivo cantilenare di Giulio? I pedali crunch su linee geometriche di basso? Il levare tintinnante? Il ciuffo ribelle sul viso? Le tinte sono sempre notturne. Mai ascoltare in mezzo al traffico “Chain scars“, i più penserebbero che la loro vita è inutile, lì in mezzo, nel freddo.
“Good news“: non vorrei dire che questa canzone mi ricorda “Writing to reach you” dei Travis, ma è così. Non ci posso fare nulla. Forse mi piace proprio per questo. E visto che viene citata nel testo di quest’ultima, ci aggiungiamo anche “Wonderwall” degli Oasis. Masterpieces. Insomma, probabilmente anche gli Oasis avranno copiato da qualche parte, ma ci terranno a dire che si sono solamente ispirati. Quello che voglio dire è che “Good news” è una di quelle ballatone per cui vale la pena sfoderare una chitarra acustica durante un concerto.
E ora, le note dolenti.
So che dovrei scrivere altrettanto sugli Stardom.
Dovrebbero essere il gruppo principale della serata, i pezzi da novanta venuti sin qui da Milano.
Scusatemi lettori, mi duole la mano, si è svuotata la testa. Sul palco ho visto una fotocopia stropicciata dei primi Diaframma, con protesi un chitarrista alla CCCP e una reincarnazione di Jaco Pastorius capace solo di slappare.
Scusatemi, un set che dire piatto è un insulto ai Paesi Bassi. Un cielo monocromo mitteleuropeo, metalmeccanico e sterile. E, mi scuso con i fan degli Stardom, ma mi è passata la voglia di vedere revival compassati senza nessuna voglia di sorpassare antichi stilemi e pose ridicole. Per cose di questo genere torno a casa e mi ascolto un vecchio disco di Faust’O.
Un’alternativa? Gli End.: largo all’avanguardia!
Testo di Alessandro Pilia
Foto di Paola Corrias
Info End.:
http://www.myspace.com/endpuntato
http://www.facebook.com/pages/End/215503861778?ref=ts
Info Stardom: