Dal disgusto al delirio: analisi dell’opera “Fear and loathing in Las Vegas” di Hunter S. Thompson – Red (about Toby): “He was a crook.”


19 maggio 2012

Non sempre lo scrittore è associato al suo alter ego letterario.
Per questo Hunter S. Thompson verrà sempre ricordato come un giornalista politico, e non solo come Raoul Duke, il consumatore di mescalina. Si è occupato di politica, e la viveva, come fosse la sua seconda anima, con la speranza sempre forte all’apparizione di ogni nuovo paladino (i fratelli Kennedy, George McGovern, Jimmy Carter) e la disillusione di veder crollare puntualmente i suoi ideali, non senza capire i motivi e spiegarne, motivarne, le cause.

In particolare, una caratteristica fondamentale, che è durata per quasi tutta la parabola thompsoniana, è stato il rapporto con Nixon.
Un legame simbiotico, simile a quello tra Travaglio e Berlusconi, seguendo il leitmotiv giornalista/politico, che ha permesso a entrambi di identificare un nemico, avere ben presente l’obiettivo contro cui mirare.
L’autore, che ha sempre sostenuto quanto la politica sia meglio del sesso, criticò aspramente il repubblicano Richard Milhous Nixon per l’incapacità decisionale e la corruzione di cui si macchiò, e con lui la suo entourage.

Thompson ebbe dure parole a partire dallo confronto televisivo per le presidenziali del 1960, Nixon versus John Fitzgerald Kennedy, per passare all’impegno giornalistico in occasione del suo primo primo mandato come presidente, nel 1968, che Nixon raggiunse approfittando del rifiuto di Lyndon Johnson di ricandidarsi, della conseguente instabilità del partito Democratico, anche per l’omicidio di Robert Kennedy (candidato prediletto di Thompson) e dell’appello alla “maggioranza silenziosa“. Il popolo square, medio, dell’America conservatrice che non voleva una Nazione ribaltata dalle continue contestazioni di matrice hippie e underground, minanti il tessuto sociale, e soprattutto pretendeva una risoluzione definitiva, e vincente, per il conflitto in Vietnam.

Nixon, had finally prevailed for reasons that people like me refused to understand – at least not out loud.Nixon, alla fine aveva vinto per ragioni che gente come me rifiutava di comprendere – almeno ad alta voce.” (pag. 8/28).
In “Fear and loathing in Las Vegas” è citato più volte, assieme a Spiro Agnew, in particolare nelle dissertazioni in cui si rintracciano i punti fermi del crollo del Sogno Americano.
E’ il “nervo principale” di quello sventurato 1971: una ripetizione infinita della parola “Sacrifice – Sacrificio” (pag. 46/127).

Downers came in with Nixon – L’era dei tranquillanti sia (è) arrivata insieme a Nixon” (pag. 71/187) che, con la sua politica prepotente e testarda, ha dato il colpo di grazia all’idealismo del decennio della Summer of Love.
La guerra tra i due continuò, scavalcando il decennio, e alle elezioni del 1972 Thompson, col supporto di Jann Wenner e Rolling Stone, seguì la campagna elettorale di George McGovern, candidato democratico.

La sconfitta fu cocente per il giornalista, ancora una volta, e il suo interesse per la politica si sarebbe dissolto per diversi anni, come dichiarato più volte. Non sparì affatto l’immagine iconografica di un nemico sempre presente, anche se fuori dalla ribalta della scena pubblica, in conseguenza dello scandalo Watergate: Thompson indossa ironicamente la maschera di Nixon nel documentario “Fear and loathing in gonzovision” del 1978, così  come in “Where the buffalo roam“, di due anni successivo, primo film ispirato alla sua opera, in cui ordina al suo cane di attaccare alle palle un fantoccio con le fattezze dello statista perdonato da Gerald Ford.

Nixon era la maschera del Sogno Americano, e Thompson la vestiva per ricordare che anche all’alba del reaganismo c’era chi si divertiva a torturarla sfacciatamente.

Nel 1994, alla morte del suo peggior nemico, Thompson scrive un feroce necrologio intitolato “He was a crook” parafrasando una celebre conferenza stampa del 1973.
Nixon ne esce massacrato.
Deridere senza pietà un ex presidente USA il giorno del suo funerale non è cosa da tutti, e non è cosa di tutti i giorni.

Potrebbe sembrare l’epilogo dell’odio politico di un uomo troppo radicale per la politica americana, se non fosse che, qualche anno dopo, George W. Bush sarebbe diventato il quarantatreesimo uomo a reggere l’esecutivo statunitense.
Thompson, secondo alcuni troppo stanco per lottare ancora, avrebbe preso la decisione del suicidio, nel 2005, anche per questo motivo: un futuro troppo deprimente per la sua prospettiva radicale.
In quel presente ormai non vi era più traccia del Sogno Americano. Ma trentaquattro anni prima, “Fear and loathing in Las Vegas“, in definitiva, non è un romanzo che si esprime solo in termini critici negativi sulla sua epoca.
E HST non fu solo il nemico di Nixon, come non fu solo un consumatore di mescalina

Testo di Alessandro Pilia

Foto di Paola Corrias

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