AETERNUS | Progetto fotografico di Meryam El Bouhati

Glocal. Resistenza. Tenacĭtas.

Orde di informazioni che circolano in pieno stato confusionale, una risoluta globalizzazione e la battaglia navale degli input oltreoceano.

Non è una fortezza.

Malleabile, la realtà spesso è alterata e stagna.

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Cercare altri mondi, ma stavolta esistenti, nascosti all’ombra delle pietre. Un altro Marocco, ad esempio.

Il Marocco di un piccolo villaggio sconosciuto di una provincia poco nota, che si perde come una molecola di soluto nel solvente. La sua presenza, benché minimale, caratterizza la soluzione.

Un piccolo villaggio.

Meryam El Bouhati l’ha esplorato con perseveranza. Si è recata per tre anni nella moschea marabout che conserva le spoglie di Moulay Driss Primo.

All’interno della moschea, dice Meryam, “le persone hanno sempre l’aria di farsi carico di tutti i peccati del mondo”.

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Ma è arduo vederne i visi. Gli sguardi sono bassi e le mani sembrano voler raccogliere un’acqua inesistente. Ogni giorno la stessa scena. Poche varianti spalmate su infiniti giorni.

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Dov’è Dio se non qui? Se non tra i cappotti consunti, a righe, che da secoli vestono marocchini di origini amazigh. Se non tra le mattonelle artigianali che si uniscono l’una all’altra, in qualsiasi direzione, senza soluzione di continuità. Se non in quegli intonaci bianchi che contrastano pesantemente con i luoghi bui in cui l’eco si espande senza risparmiarsi.

Tra le pieghe dei visi? E’ qui l’acqua che cercavi, è qui Dio.

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Davvero, non resta che srotolare e stendersi sul tappeto di fitta ignoranza che ci si porta dietro dalla nascita. Poggiare la fronte sudata su di esso, immaginare gli odori degli endroits più umidi e inventare fantasiosamente una gratuita protezione divina. Un’altra velocità del succedersi delle cose.

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I riti che si ripetono. Evapora il bisbiglio delle persone. L’aria è densa. Dentro.

Fuori. La donna anziana insegna qualcosa di prezioso alla bambina e le due figure fanno parte di tutto il resto. Figure + contesto. Figure = contesto.

Come il ciclo dell’acqua. Uomo / territorio / Dio / territorio / Uomo.

Tutto il resto non ha valore. Neanche la distinzione tra vita e morte.

I colori non hanno valore. I vestiti e le scarpe nemmeno.

Le superfetazioni ritornano, inutili, come sempre.

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Lo sguardo monocromatico di Meryam è consapevole, per questo ha deciso di testimoniare l’arcaico ed aeternus che si cela tra le spesse mura di una moschea fuori dalle orbite turistiche.

Testo a cura di Paola Corrias

©Fotografie di Meryam El Bouhati

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MAXIME VERELST

Stato

MAXIME VERELST

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Un Igorrr delirante in sottofondo, la neve alta oltre la finestra, i freddi resti di una carbonade flamade attenuano il dolore di Max. Ha trascorso tutta la notte in strada a catturare visi solcati e tranci di vita.

Art Ch’ti Texture. Gioco tra le parole arte/Ch’ti/architettura/texture.

Il progetto inizia nel 2012, nelle corons del nord della Francia. L’uomo e la periferia, in continui attacchi frontali e una manciata di confronti biunivoci.

L’ombra di ogni giorno che passa è proiettata e immortalata sui mattoni in cotto del quartiere operaio dei carbonai.

La texture è la ripetizione delle case, o la ripetizione del mattone, o ancora la serializzazione degli abitanti. Numeri. O anime.

Come bambole antiche o vecchi motorini nei garages abbandonati, immobili attendono di rianimarsi.

Il fotografo si amalgama con la gente, la sua gente, e restituisce a ogni numero la propria identità.

Il risultato: un prezioso distillato in bianco e nero estratto dal ghetto, da Maxime Verelst.

Pagina Facebook: Art ch’ti texture

Un Igorrr délirant en fond, la neige haute hors de la fênetre, les froids restes d’une carbonade flamade atténuent la douleur de Max. Il a passé la nuit dans la rue, à capturer visages sillonnés et tranches de vie.
Art Ch’ti Texture.
Jeu entre les mots art/Ch’ti/architecture/texture.
Le projet nait en 2012, dans les corons du nord de la France.
L’homme et la banlieue, en continus attaques de front et une poignée de comparaisons biunivoques.
Chaque jour est fixé sur les briques pleins cuites du quartier ouvrier des charbonniers.
La texture est la répétition des maisons, ou la répétition du brique, ou bien la sérialisation des habitants. Nombres. Ou âmes. Comme poupés vieuilles, comme des mobylettes dépoussiérés dans les garages abandonnés.
Le photographe fusionne avec la population, sa population, et redonne à chacun son identité.
Le résultat: un précieux distillat en blanche et noir extrait du Ghetto, par Maxime Verelst.

à lire: Maxime Verelst | Carnet d’Art